La pesca tradizionale

Metodi tradizionali di pesca

carot piediluco

Nicoletta Uguccioni, “Piediluco e il suo lago”, Collana ‘Atlante Linguistico dei Laghi Italiani’ (ALLI), Univ. di Perugia; ed. Amm. Prov. Terni, 1985. pp. 39-52 Le moderne reti da pesca, assai limitate nella tipologia (reti da posta, tramagli, bertovelli e cogolli di diversa grandezza), realizzate in nylon e prodotte su scala industriale, hanno finito per prendere il posto, anche nel lago di Piediluco, degli strumenti di pesca tradizionali, ancora in uso intorno agli anni ‘940-’950.

Questi ultimi si contraddistinguevano per la loro varietà e soprattutto per la specificità delle funzioni che dovevano svolgere. Mentre oggi un moderno cogollo (cucullu) o una rete da posta (retélla)permettono di catturare qualsiasi specie di pesce, questo non avveniva in passato: i pescatori, esperti conoscitori delle caratteristiche del lago e dei suoi fondali, dei pesci e dei loro cicli riproduttivi nonché delle prerogative della flora acquatica e delle zone lacustri predilette dalla fauna ittica nelle diverse stagioni, avevano costruito reti ed ideato sistemi di pesca adatti alla cattura delle differenti specie di pesci che popolano il lago.

Prima che le recenti semine di alcuni esemplari di fauna ittica quali la carpa (la càrpia), il persico reale [(lu sarmirinu) i pescatori di Piediluco chiamano il persico reale sarmirinu da quando, nel 1927, in seguito ad una operazione di ripopolamento, credettero che fosse stato immesso il salmerino. Chiarito l’equivoco, tale nome rimase comunque ad indicare il Perca Fluviatilis L.], il persico sole (lu perzicacciu), il coregone (lu curicóne), l’alborella (l’arborèlla) e, dopo l’immissione delle acque del Nera, la trota (la tròtta) determinassero nelle acque del lago quello che gli anziani pescatori definiscono un miscujjo de pésce (mescolanza di pesce), gli esemplari indigeni presenti nel lago di Piediluco erano esclusivamente tinche (le ténche), lucci (li lucci), anguille (le nguille), cavedani (li squali), scardole (le scàrdaje) e rovelle (Rutilus rubilio Bp., specie quest’ultima ormai estinta), chiamate localmente le rosciòle.[Il Rutilus rubilio Bp., specie ittica scomparsa anche dalle acque del Trasimeno, era chiamata dialettalmente, nel lago di Trasimeno, la tasca o laschina; con il termine tasca (usato in senso collettivo) a Piediluco si indica invece un insieme di pesci di varie specie, di piccole dimensioni e di scarso valore.] Alla cattura di queste ultime specie di pesci erano quindi finalizzate le operazioni di pesca e la realizzazione di reti e strumenti tradizionali, frutto di una esperienza tramandata nei secoli di padre in figlio. Le reti, prima in canapa (cànepa o accia), più recentemente in cotone, venivano costruite artigianalmente dal pescatore il quale veniva spesso aiutato in questa fase dalle donne della sua famiglia.

Dopo aver confezionato le matasse di filo ritorto per mezzo de lu rinaspu (aspo), munite di un piccolo modano di legno (la tèlla), le donne attendevano all’operazione di fà le majje, di interessere cioè il reticolato delle maglie della rete. Queste ultime erano di diversa grandezza a seconda del tipo di pesce cui ogni rete era destinata. Una volta pronte le varie pèzze de réte, iniziava il vero e proprio lavoro di armatura (armà o montà le réte), di competenza del pescatore il quale collegava le pezze fra loro per mezzo di un ago (acu) di legno. Il filo di canapa o di cotone che serviva a tale operazione era trattenuto nell’acu, dalla curuna e dalla conòcchia che ne regolavano lo scorrimento.

Talvolta si ricorreva ad un semplice żżippu (bastoncino di legno appuntito), soprattutto quando si trattava di rammendare (arconcià) una rete che si fosse strappata (sgarrata). Le subbici della rete (corde di armamento) erano costituite da una serie di fili di canapa intrecciati. Al fine di realizzare una subbice resistente si ricorreva ad un singolare strumento denominato lu trilluréllucostituito da una piccola ruota di ferro (lu volanu) che a mano veniva fatto girare su di un perno elicoidale. «Antro che-ccalli llà le mano!» commentano gli anziani pescatori ricordando la faticosa operazione. Come galleggianti per permettere alla rete di rimanere a galla (ngallata) si usavano li żżughiri (sugheri) mentre l’estremità inferiore di questa (lu sóttu) era appesantita da le piumme (piombi).

Non tutti i pescatori erano in grado di armà le réte co le piumme per cui si rivolgevano ai più esperti fra loro. Piumme e piummini di diversa grandezza venivano acquistati da lu stagninu (stagnaio) del paese. Prima di immergere una rete appena confezionata in acqua, i pescatori provvedevano a passarle la ténta, a cospargerla cioè con una mistura ricavata mediante particolari procedimenti, dalla corteccia (la scòrza) di abete, per creare attorno alla canapa uno strato protettivo che ne limitasse la putrefazione (pe nun falla nfracià). Durante il loro uso, le reti richiedevano una continua ed attenta manutenzione.

Soprattutto le retélle (reti da posta fissa) che rimanevano molte ore in acqua, dovevano essere arpulite (ripulite) dalle incrostazioni di fango (lu lótu), da li pallócchi de robbaccia (impiastri melmosi) o dalla patina vischiosa prodotta dalle alghe (lu scacarciu). Le reti e le attrezzature sussidiarie alle varie operazioni di pesca di proprietà di un pescatore venivano denominate nel loro insieme l’attrézzi piccoli in contrapposizione all’arte gròssa [sciabica (ossia la rete a strascico per piccole profondità costituita da due ali e un sacco a maglie diverse, vedi avanti, ndr)] che veniva di tanto in tanto presa in affitto per operazioni di pesca di più ampie proporzioni.

Accanto ai diversi tipi di reti destinati alla pesca costiera o in lago aperto, ogni pescatore aveva a sua disposizione (e portava quasi sempre con sé in barca) una serie di strumenti fra cui la scartaccia,grossa cucchiaia di legno per sgottare l’acqua entrata nella barca, lu farcióne per liberare il fondale lacustre (lu funnu) dalle alghe (l’èrba), lu surricchiu e lu firrittu, lunghi bastoni dalla lama a forma di roncola che servivano per tagliare la canna palustre (la cannuccia o cannucciòla) al fine di realizzare li curriduri, corridoi di acqua libera dalla vegetazione fra i canneti (li canniti) nei quali impiantare le reti.

Non mancavano, nell’attrezzatura del pescatore, nemmeno lu cuìcchiu (retino con manico), la ngassarèlla (retino a maglie fittissime) e la graffiu, un uncino legato ad un filo per recuperare reti e palamiti in acqua. Svariati erano, come precedentemente detto, i tipi di reti o di attrezzi cui i pescatori nel corso dell’anno ricorrevano per la cattura del pesce. Le retélle, reti da posta a maglia semplice che ancora oggi, sebbene ammodernate nei materiali costitutivi, vengono calate nelle acque del lago, vennero introdotte a Piediluco circa cinquanta anni or sono e usate principalmente per la pesca delle tinche. Prima ancora, larghissimo uso veniva fatto del tramaglio che era la réte per eccellenza.

Era formato da tre teli sovrapposti e cuciti insieme agli orli di cui il mediano (la camiciòla) aveva maglie più fitte(più-ccéche) rispetto ai teli esterni che erano più chiari (avevano maglie più rade). La camiciòla, meno tesa delle pezze laterali, formava una specie di sacco (la saccòccia) nel quale rimaneva imprigionato il pesce che si imbatteva nel tramaglio. Nella confezione di tale rete il pescatore doveva essere molto accorto in quanto, se la camicìòla non era ben proporzionata, lu pésce ardava arréto perché la camiciòla je facìa come um-muru (il pesce veniva respinto indietro perché la rete era troppo tesa).

Molto praticata con tale tipo di rete era la pésca co la pèrtica a scaccià Essa era finalizzata principalmente alla cattura della tinca (la ténca) e del luccio (lu lucciu), ma nel tramaglio potevano incappare anche anguille (nguillte) e cavedani (li squali). Nei pressi della costa dove l’acqua raggiunge un’altezza di tre-sei metri, il tramaglio veniva gettato nel lago e questo, tenuto a galla dagli żżughiri e teso da lì piummini, impediva il passaggio del pesce che i pescatori provvedevano ad indirizzare (scaccià) verso la rete percuotendo con lunghe pertiche le canne palustri o battendo i bastoni sul bordo della barca. In inverno la pesca a scaccià veniva praticata anche in lago aperto (là-mmézzu lacu) circondando con il tramaglio alcuni cospóni d’èrba (grossi ciuffi di vegetazione lacustre che fuoriescono dalla superficie del lago) presso i quali il pesce ama ripararsi (s’armétte) nella brutta stagione.

Quando si recuperava (s’artiràa) una rete piena di pesce si diceva che era foderata de pésce. Luccio e anguilla venivano pescati soprattutto con le palamiti che a Piediluco sono ancora oggi chiamate amate. Un’amata era formata da un lungo filo di canapa (lu spacu maéstru) che portava, a distanza regolare, una serie di funicelle (li spacucci o spachitti) da cui pendeva un amo (l’amu) legato con un tipo di nodo detto lu nódu de l’impiccatu. Le amate per la pesca del luccio si differenziavano da quelle adatte alle anguille in quanto li spachitti erano più corti e fra questi e l’amo si inseriva la catenélla, un tratto di filo di rame ritorto(abbutinato) che rafforzava la funicella in modo tale che il luccio non riuscisse a strapparla (stuccalla) o a corroderla (rosicalla) con la possente dentatura (la séca). «Lu lucciu c’ha lu bbaffu: co-ttutti li ddénti che-ppòrta, stucca lu spacu, cià li ddénti pizzuti!» commentano i pescatori (il luccio ha la mascella superiore ricca di denti affilatissimi con cui strappa facilmente il bracciolo delle palamiti). Le amate per la pesca delle anguille venivano completamente affocate, cioè lasciate cadere sul fondo del lago: «se bbuttàono a-ttoccà-ttèrra, tanto la nguilla, se lu spachittu sta atterratu, magna lo stésso».

Il pescatore, dopo aver fissato la parte iniziale (lu capu) della palamite ad un grosso żżùguru, iniziava a bbuttà l’amata, a distendere cioè la palamite procedendo al tempo stesso con la barca (co la bbarca ntanto se caminàa). L’amata era contenuta in una cassetta (la cassétta de l’amata) il cui bordo presentava una serie di ntacche (piccole incisioni) sulle quali erano infissi i numerosi ami pendenti dagli spachitti. Una simile disposizione impediva a questi ultimi di intrecciarsi (ntricasse) e permetteva ai pescatori di procedere ad una rapida annescatura (innescamento) degli ami. Come esca (annischime) per le anguille si usavano gàmmiri (gamberi), érmi (vermi) o ombrichi (lombrichi) e l’annescatura veniva effettuata a terra, prima di uscire con la barca. Per la pesca del luccio era invece indispensabile il ricorso ad un’esca viva (n piscittu vìu), preferibilmente una rosciòla o una scàrdafa, piccoli pesci di scarso valore questi ultimi, denominati indistintamente le pescetèlle.

L’annescatura doveva in questo caso avvenire sulla barca dove le esche vive venivano conservate in un’apposita bbagnaròla (recipiente metallico). Il luccio infatti, pur essendo un pesce molto vorace (magnatóre), non ama la caccia, preferisce appostarsi ed attendere la preda: «è m-pésce pòco lavoratóre, sta sèmpre mpostatu, tòcca nvitallu; quanno je passa llà-ddavanti m-piscittu, allora bbécca!» notano i pescatori. A differenza delle amate per le anguille, quelle da luccio venivano distese poco distanti dalla riva, in mezzo alle alghe e alla vegetazione sommersa (là-ll’èrba) ove tale pesce ama ripararsi (s’armétte). Con tale sistema spesso era possibile catturare (chiappà) anche lucci di grosse proporzioni detti squadrèlle, mentre il luccio di poco peso è chiamato mànicu de rasóju, rosichijju o sarachijju. I pescatori distinguono con nomi particolari le varietà di anguille presenti nel lago: chiamano capoccióna o pesciaròla un tipo di anguilla dalla testa grossa e dalla bocca larga che fà (vive, prolifica) nel braccio di Capulòzza, dove sta pòca acqua e la tròfia (lo sporco), pizzutèlla una varietà di anguilla dal muso aguzzo, scorzóne un altro tipo dalla testa grossa e piatta mentre l’anguilla giovane, la ceca, è detta racanittu.

Nel caso in cui intendesse conservare vive le anguille (métte a-vvivo) per immetterle sul mercato soprattutto in occasione del Natale, il pescatore doveva usare molta cura nel togliere l’amo dal palato del pesce, in caso contrario lo estraeva con forza e all’anguilla je vinìa su-ttuttu Lu bbu(d)éllu (uscivano fuori le interiora). La muscosità dell’anguilla è detta la còzza e i pescatori notano che nel toccare tale pesce armane tutta còzza su le mano. Anche le amate avevano bisogno di una attenta manutenzione e in genere dovevano essere rinnovate circa una volta al mese perché, a causa della lunga permanenza in acqua, facilmente se tignàono (si fradiciavano e si sgretolavano). Un altro attrezzo molto antico e da tempo caduto in disuso era lu mattucciu, usato esclusivamente per la pesca del luccio. Si trattava di un cilindro formato dall’unione di quattro o cinque fusti discannellóne (stiancia palustre, Typha latijolia L.) che prolifica lungo le rive del lago. Li scannelluni venivano tagliati con lu marracciu (sorta di roncola) in sezioni lunghe circa cm. 30, attorno ad essi si avvolgeva (s’abbutinàa) un filo lungo alcuni metri al termine del quale pendeva un grosso amo di rame rinforzato, come nelle amate da luccio, dalla catenélla che impediva agli acuminati denti del pesce de stuccà lu spacu.

I mattucci venivano gettati in lago aperto (là n fòri) in numero di trenta, quaranta. Nel caso in cui il luccio, attratto dall’esca viva che veniva appesa all’amo, abboccava, il filo si svolgeva rapidamente(s’abbutinàa), seguiva il pesce nel suo percorso per qualche metro senza offrire resistenza (je prestàa), finché l’amo si conficcava nel palato del pesce. L’amo, come quello dell’amata, era liciu (liscio), senza ntacca (senza ancoretta), e a volte per favorire l’innescamento poteva essere de stórtu, cioè con la punta rivolta lateralmente.

Trattandosi di un attrezzo da pesca alquanto semplice da realizzare, anche i ragazzi spesso costruivano i loro mattucci e li deponevano nelle acque del lago a nuoto (a-nnótu) [I vari stili del nuoto hanno assunto a Piediluco le seguenti denominazioni: nuotare a rana, notà a-rranòcchia; nuotare sui fianco, notà a la marinara; nuotare sul dorso, notà a-pparte deréto; nuotare a stile libero, notà a la spallóna,fare il morto, notà a-mmurticinu. Quando qualcuno nuota sott’acqua si dice che surina, in riferimento all’abitudine di un uccello acquatico, lu tùccaru (tuffetto, Podiceps ruficollis), che si tuffa in acqua e vi rimane a lungo immerso. «Surina che-mme pare n tùccaru» si dice a Piediluco di un abile nuotatore. Tuffarsi, fare un tuffo, si dice localmente fà n-zurinu.]. Fra gli attrézzi del pescatore non potevano mancare, infine, li sfissi e li martélli, tipi particolari di bertovello usati per la pesca costiera all’interno degli appezzamenti di lago che ogni anno i pescatori prendevano in affitto dall’Amministrazione comunale, dietro pagamento di un canone. Lu sfissu era finalizzato alla cattura della rosciòla, pesce presente in gran de quantità nelle acque del lago fino intorno agli anni ‘30 quando, in seguito alle modificazioni ambientali prodotte dall’intervento dell’uomo e all’abbassamento di temperatura causato dall’immissione delle acque del Nera, scomparve non trovando più un habitat favorevole alla sua sopravvivenza.

La roscióla, pur non essendo una specie pregiata, era quanto mai utile perché costituiva una ottima esca per la cattura di altri pesci. Veniva infatti méssa a-vvivo all’interno di un apposito vivaio a forma di anfora realizzato con étrica (vetrice) o con oméllu (orniello) intrecciati, denominato lu nassittu. La scomparsa della rosciòla (così chiamata a causa delle alétte róscie, le pinne pettorali e pelviche rossastre) ha determinato, inevitabilmente, la caduta in disuso degli attrezzi e dei sistemi di pesca finalizzati alla sua cattura e solo qualche anziano pescatore ricorda di aver fatto uso de li sfissi nella sua giovinezza. Lu sfissu era una rete ad imbuto lunga circa 70-80 cm., conteneva al suo interno un ritroso (la fijjòla) ed era tenuto aperto da tre cérchi di diametro decrescente realizzati in legno di orniello. Il filato della rete era a-mmajje céche (mm. 10). L’imboccatura della rete era detta la bbócca mentre la sezione finale a fondo cieco, all’interno della quale veniva convogliato il pesce, era detto lu cuturizzu.

Veniva usata in primavera, nel periodo in cui la rosciòla si avvicinava a riva per deporre le uova (bbuttà-ll’òva) e non era raro che all’interno dello sfissu finisse qualche anguilla che si fosse recata amagnà-il’òva de le rosciòle. Per indicare il periodo della fregola non esiste un termine dialettale specifico: i pescatori ricorrono al verbo fà (fare): «a-pprimavèra fanno le rosciò le» oppure «le ténche fanno fòrte su lu frassiéllu»(tipo di erba lacustre). Con il termine nódu si indica invece un gruppo di pesci in fregola: «je dicémo nódu perché-ss’ammùcchiono, se lécono» (i pescatori notano che durante la fregola i pesci formano dei gruppi, si rincorrono circolarmente come se fossero legati). «Và m-pó, un nódu de curicùni se-ddó stanno!» «L’hai visto se-cche-nódu de ténche?» «Annamo a-nódi!» (andiamo a pescare quel gruppo di pesci in fregola) sono espressioni tipiche e comunissime fra i pescatori di Piediluco. Particolare è il modo in cui avviene la fregola del luccio: durante l’atto riproduttivo, numerosi maschi riuniti intorno alla femmina si agitano (smòono) con rumore battendo la pinna caudale (la cóa) contro le alghe e provoca-no in superficie una serie di bollicine che i pescatori definiscono schiama. La presenza della schiama è quindi un segnale inconfondibile della presenza di un nódu de lucci.

Il tipo di vegetazione che i lucci prediligono per deporre le uova è lu pilucaprinu (Potamogeton perfoliatus L.). Il periodo riproduttivo della tinca coincide invece con l’avanzata primavera (maggio-giugno). Dopo il letargo invernale in cui riposano sui fondali (s’arméttono), in primavera le tinche tornano ad essere attive e ricompaiono in superficie (sfàngano e se ngàllano). I pescatori di Piediluco notano che le tinche del lago hanno un aspetto più toccióttu, più piazzatu, meno sfusolatu (più massiccio, tozzo e meno affusolato) rispetto a quelle del Trasimeno. Distinguono pure con facilità la ténca fémmina da lu tencózzu maschiu perché quest’ultimo presenta l’alétte de la trippa arruncinate (le pinne ventrali appuntite, quasi rostrate).

Negli ultimi decenni la pesca alla tinca, da sempre molto attiva, viene effettuata per mezzo delle retélle (reti da posta), ma precedentemente tale pesce veniva catturato principalmente con lu martéllu. Tale strumento di pesca era in tutto simile allo sfissu tranne nella misura del lato della maglia (mm. 20) e nelle dimensioni (era lungo circa un metro). Per tenere tesa la rete ad imbuto si ricorreva ad un bastone (na pertichélla) detto asta della stessa lunghezza de lu martéllu cui questo era collegato da alcuni spachi. L’asta permetteva di recuperare (artirà) con facilità la rete in quanto bastava infilare un remo (lu rimu) nell’intercapedine fra la rete e il bastone e sollevare il tutto. Lu martéllu poteva essere usato a-ffunnu, cioè calato sul fondale dopo essere stato appesantito da alcuni sassi (li scójji) oppure poteva pescà a-ggalla, venir depositato nei pressi della riva fra la vegetazione lacustre dove la tinca ama rifugiarsi, dopo aver preparato per la rete un apposito póstu bbéllu pulitu (piccolo tratto libero dalle alghe). Più complessa era l’operazione de atturà le furmi [le furmi è variante arcaica, oggi sostituita da li formóni o furmuni] cioè chiudere con la rete lo sbocco di canali o torrenti che si gettano nel lago. Se lo sbocco (lu sbuccu) non era di dimensioni troppo grandi era sufficiente il ricorso a un semplice martéllu cui venivano collegate due fratte (piccole palizzate) di cannucciòla (canna palustre) che fungevano da braccia di incanalamento (paratójja) per indirizzare il pesce nella bbócca del bertovello.

Una fratta era formata dall’unione di più stòle (stuoie) che il pescatore realizzava intrecciando (nterzicanno) le canne co la scòrza sécca (parte esterna essicata) dello scannellóne (stiancia palustre). «Le fratte tòcca nterzicalle bbène se-nnò se scappa lu pésce!» raccomandava-no i pescatori nel momento della esecuzione delle stuoie. In corrispondenza di quei furmuni il cui punto di immissione nel lago presentava una certa ampiezza, si usava mettere invece fu martellóne, grosso bertovello simile al moderno cogollo, costituito da due grandi ali di rete (l’anżibbócca) che servivano a convogliare il pesce verso il centro dove si trovava la bbócca del bertovello. Tale tipo di rete permetteva di catturare (chiappà) una notevole quantità di pesce.

Per métte a-vvivo le tinche catturate si ricorreva alla nassòtta, grossa cesta di vetrice, più grossa de lu nassittu, munita di un coperchio (fu copérchiu) a forma di imbuto.

La pesca con la fiocina

Accanto a sistemi abbastanza elaborati come quelli fin qui illustrati, il pescatore poteva ricorrere in certi periodi a mezzi ben più rudimentali di pesca i quali richiedevano tuttavia una notevole abilità.

Molto comune era il ricorso alla fiocina (la fécina), soprattutto per la pesca del luccio e della tinca che in primavera sono soliti avvicinarsi alla riva. La fécina presentava un lungo manico di legno ed un forchettone di ferro munito di cinque o sette rebbi (le còrne). I pescatori riconoscono la difficoltà di un buon uso della fiocina: «èra um-mestiére» dicono (richiedeva grande abilità).

Ad aprile-maggio, quando le ténche se méttono a-ppijjà lu sóle e stónno a sfiorà-ll’acqua co lu groppóne (quando le tinche in cerca di calore sfiorano la superficie dell’acqua con il dorso) il pescatore, a piedi, cercava di individuare l’animale e con grande precisione lanciava la fiocina (fecinàa).

[Un tipo di pesca proibita, ma alla quale a volte qualche pescatore ricorreva, consisteva nello scagliare di notte la fiocina contro qualche tinca, luccio o carpa dopo aver temporaneamente immobilizzato l’animale puntandogli addosso un fascio di luce prodotto dalla scindiléna (lanterna ad acetilene): «la primavèra lu pésce cérca annà su la spónna, sull’acqua calla; vanno pascolanno, però la scindilèna li férma e-jje se tiràa na fecinata»] Sistema altrettanto rudimentale era quello de pescà co le mano.

Questo tipo di pesca si svolgeva là-lle paùli (nelle zone paludose dove l’acqua è bassa) nel periodo invernale quando il pesce sta quasi immobile in mezzo alla melma (la mérma): «s’annàa jjù co le mano, quanno sintìi lu pésce, lu strisciài piano piano sènza strigne fino a -cche no j arriài sull’anghie, su fu puntu che-sse fà agguantà». (Si immergeva un braccio in acqua; quando il pesce era stato individuato, il pescatore lo accarezzava pian piano senza stringerlo fino ad arrivare alle branchie, punto questo che permette di agguantare con sicurezza il pesce).

Le branchie vengono dette generalmente anghie o agne, quelle del luccio, più grosse, sono chiamate invece li ggàngani. Le squame del pesce sono dette le scame, la lisca è la rischia.

L’arte gròssa

Prima che i pescatori di Piediluco, appartenenti a otto famiglie che si tramandavano di padre in figlio i segreti del mestiere, si associassero in cooperativa, ognuno di essi pescava per proprio conto ed esisteva fra loro una certa competitività.

L’unica occasione in cui si associavano era la pesca con l’arte gròssa (sciabica) che prendevano in affitto dal Barone Franchetti, ricco proprietario del luogo che deteneva il diritto esclusivo di pesca con tale rete.

L’arte gròssa è una rete a strascico costituita da due lunghi bracci e da una sezione finale a forma di sacco (lu saccu) nella quale si raccoglie il pesce. Ognuno dei due bracci di rete è diviso in tre sezioni contraddistinte da nomi diversi (fu camòne, l’ala, la fiancata) a seconda delle dimensioni delle maglie che da molto rade nella parte iniziale, si infittiscono sempre di più.

Numerosi żżùghiri mantenevano a galla la grande rete e, in corrispondenza della bbócca del sacco, era situato un galleggiante di sughero di grosse dimensioni detto fu pappagallu che aveva la funzione di segnalare ai pescatori l’esatta posizione della rete. All’estremità dei bracci si trovavano due lunghe corde che servivano per bbuttà (distendere) e artirà (recuperare) la rete.

La pesca a strascico (a strascinà) veniva effettuata in appositi tratti di lago denominati le tirate, acque libere dai canneti (dd è-ppelatu) o prive di vegetazione sommersa (acqua pulita) in modo che la rete, mentre strisciava sui fondale (nfancava), non incontrasse ostacoli (impicci). Nell’arte gròssa finiva ogni tipo di pesce e in tal modo si potevano pescare anche i cavedani (li squali) i quali, considerati di scarso valore, non erano fatti oggetto di particolari tipi di pesca [Il cavedano è detto anche smerdóne perché quanno piòe mtìgna la robbaccia de li scàrichi (quando piove i cavedani si radunano presso gli scarichi delle fogne)].

Lu sarmirinu (persico reale) oltre che con la sciabica, veniva pescato con la bbilancia, rete da raccolta collegata a due pertiche incrociate le cui estremità, unite ai quattro angoli della rete, ne assicuravano l’apertura.

Metereologia lacustre

I pescatori di Piediluco (pidilucani), oltre ad essere attenti osservatori delle abitudini dei pesci, sono esperti conoscitori delle caratteristiche geomorfologiche del lago e degli agenti atmosferici favorevoli o meno alla pesca e alla navigazione.

Preferiscono uscire in barca (scappà co la bbarca) quando il lago è calmo (lu lacu è na guidiéra) e, in caso contrario, devono fare molta attenzione a li mannazzuni(grosse onde, cavalloni) che potrebbero arvurdicà la bbarca (rovesciare l’imbarcazione).

Fra i venti che soffiano sul lago, la tramontana è particolarmente sfavorevole alla pesca: «Co sta tramontana ddó jémo? Scappa via lu pésce da déntro la nassòtta!» solevano dire gli anziani pescatori per indicare che, quando soffia la tramontana tutto il pesce sparisce. Solo l’anguilla si muove (la nguilla mòe) anche con il cattivo tempo (lu témpu cattìu) ed è l’unico pesce che si riesce a chiappàd’inverno. Un colpo di tramontana viene chiamato na strina de tramontana. Il vento che soffia da est è lu strinóne, quello di sud-ovest è lu véntu mojjanu (così detto perché soffia dalla parte di Moggio), quello di sud-est è lu sciróccu (scirocco).

Il punto più ventilato del lago è detto lu ncróciu. Quando il cielo è sereno (sirinu), si dice: «va m-pó che-ssirinata!» mentre, quando compare l’arcobaleno (arcubbalénu), tipica è l’espressione: «mannaggia a n canéstru de santi e lu mànicu fusse l’arcubbalénu!» (mannaggia a un canestro di santi il cui manico è l’arcobaleno).

Le barche

antiche barche di piediluco - una foto in bianco e nero

Per quanto riguarda l’imbarcazione usata per la pesca, quella dei pescatori di Piediluco presenta una struttura molto semplice i cui elementi costitutivi sono ridotte all’essenziale.

Essa, realizzata in legno d’abete (abbétu) e lunga m. 4, è di forma quadrangolare. La presenza del fondo piatto (lu funnu piattu) rialzato alle estremità mediante due tavole leggermente inclinate chiamate li bbiancuni, fa pensare che tale tipo di barca non sia originaria di un lago dalle acque profonde come quello di Piediluco, ma che vi sia stata importata in tempi lontani da un altro ambiente, probabilmente dalla conca reatina.

La prua (la punda) e la poppa (ggiù-dda piédi), che misurano cm. 60, rispetto alla parte centrale della barca (cm. 80) vanno a restrégne (a restringere) e terminano con due piccole sporgenze(l’appóggi) usati per appoggiare il remo durante determinate manovre di remeggio. Le fiancate della barca sono dette le còste e la giunzione fra queste ultime e le tavole del fondo è ottenuta per mezzo de le còvre, supporti di legno di ulivo a forma di angolo.

Gli scalmi (li scarmi) sono attualmente due, ma i pescatori ricordano che anticamente c’era un solo scarmu. Addirittura alcune barche ne erano prive e lo stroppo (anello che tiene unito il remo allo scalmo), detto la ròccia e realizzato con vimini (licame) o vetrice (étrica), veniva infilato in un foro (fu bbucu) praticato lungo una fiancata in vicinanza della prua. Il remo (lu rimu) è costituito da una lunga asta (circa cm. 150) detta lu mànicu e da una pala (l’ala).

Una catenélla (piccola catena) e un rocchéttu (lucchetto) munito di chiave (la jàe) posti sulla prua permettevano di ormeggiare l’imbarcazione che veniva rimessa (arméssa) in apposite cappanne de cannucciòla. «Camina!» (avanza!) «Trattiétte!» (fermati!) «Soccòssa!» (gira la barca verso destra!) «Pijja acqua!» (gira verso sinistra!) «Ròccia!» (rema!) «Ména!» (fai leva con il remo sulla poppa per dare la direzione alla barca!) «Ténte!» (scosta la barca dalle reti!) sono le tipiche espressioni di incitamento che i pescatori si scambiano per indirizzare le manovre di navigazione e di remeggio.

[Tuttora è comune il remeggio della barca senza usare affatto scalmo, ossia usando un solo remo a mo’ di pagaia, analogamente alla tecnica utilizzata per la canoa olimpica singola; tale modo viene detto ‘remà a la pescatora’.

Il vogatore siede sulla parte posteriore della barca, tipicamente sul lato destro, e proprio sul solo lato di dritta effettua le pagaiate: si dice che ména nella fase iniziale della pagaiata, allorché la spinta procede diritta parallelamente all’asse della barca con la pala in giacitura ortogonale; mentre si dice che soccòssa nella fase terminale allorché appoggiando il manico al bordo ruota la direzione di spinta verso l’esterno al fine di compensare la deriva in senso antiorario della barca, ndr] Ad un pescatore che non sia troppo abile nel remare si dice scherzosa-mente: «non-zi-bbónu a-rrimà, me pari de Bbonacquisto!» (non sai remare, sembra che tu provenga da Bonacquisto [villaggio di montagna sulle alture mediorientali dell’enclave del lago, ndr].

Di un pescatore particolarmente laborioso si dice invece che vòle arvurdicà lu lacu (vorrebbe rovesciare il lago).

La caccia lacustre

Non solo la pesca, ma anche la caccia agli uccelli acquatici era molto praticata a Piediluco. Non di rado gli stessi pescatori erano anche abili cacciatori: «ójji è annata bbène, bbólle la pigna!» si diceva al ritorno dalla caccia se erano stati uccisi (ccisi) molti uccelli (la caccia è andata bene, oggi bolle la pentola perché potremo usare gli uccelli per fare il brodo).

Armati di schióppu (fucile) e forniti di càriche (cartucce), i cacciatori raggiungevano le pòste (appostamenti) dove attendevano il passaggio (fu passu) degli uccelli al riparo sotto un cappannu (capanna) senza scendere dalla barca. «Ho ntéso na fuca!» diceva un cacciatore al compagno quando avvertiva l’avvicinarsi di uno stormo di uccelli affinché si preparasse a sparare (tirà).

Gli uccelli acquatici sono chiamati a Piediluco animali a differenza di tutti gli altri tipi di uccello (es. passero, tordo, ecc.) che sono denominati li célli (o cillitti): un brancu d’animali è uno stormo di uccelli acquatici.

I cacciatori piedilucani chiamano indistintamente tutti gli uccelli acquatici di grosse dimensioni li maschi, mentre gli animali più piccoli vengono indicati ciascuno con il proprio nome, generalmente al femminile. Il nido è detto lu nìu, una covata di uccelli, na coàta o niàta e l’uccello che ha appena messo le piume (li spuntuni) e si appresta a lasciare il nido è detto volaturu. Le piume sono le pénne e le ali sono chiamate localmente le scélle.

Presso il lago di Piediluco esiste una fauna avicola molto ricca per le numerose specie presenti. Tra gli animali oggetto di caccia quelli più apprezzati sono gli Anatidi. Fra di essi i cacciatori distinguono le anatre che si tuffano nelle acque del lago per cibarsi delle erbe lacustri e quelle che rimangono sempre in superficie.

Del primo gruppo fanno parte la mazzaruta (moriglione) e lu pijjutìjju o pijjutillu (moretta tabaccata). Fra le anatre di superficie le più note sono lu jermanu (germano reale), lu cirvinu (canapiglia), la marzaròla o marzajjòla (marzarola), lu cucchiaróne (mestolone), la scrocchiarèlla (alzavola) e lu ciufilante (fischione) così detto perché ciùfila, emette cioè un particolare sibilo.

Anche il piviere (lu piviére) emette un verso simile. Numerosi sono anche gli appartenenti alla famiglia degli Svassi (specie attualmente protette, ndr) fra cui ricordiamo lu tùccaru (tuffetto) e fu suàrżu (svasso grande e piccolo). Tutti gli svassi sono tuffatori velocissimi, si immergono con rapidità nell’acqua (surìnono) per nutrirsi di piccoli invertebrati. In genere essi nidificano fra la vegetazione palustre ancorando il nido ad essa. «Ha fatto lu nìu su la scèrpa»notano i cacciatori.

La scèrpa è un agglomerato di canne e di alghe che galleggiano sulle acque. Anche la fórga o fóloga (folaga) è comune presso il lago di Piediluco [in effetti taluni cacciatori non cacciano la folaga, considerandola animale poco commestibile… «si provi a cocela tte tocca pure a buttà la pèntola…», ndr]; fra i Rallidi, sono presenti la purcijjòla (porciglione), la pollastra (schinibilla) e la cuartana (gallinella d’acqua).

Quest’ultima trova il suo habitat naturale fra i canneti, nelle zone acquitrinose (l’acquistrinu). I piccoli della cuartana sono chiamati cuartanijji. Gli aironi, sia quello bianco che quello cinerino, sono chiamati indistintamente gażżétta, ma i cacciatori non ricordano di aver mai visto a Piediluco l’airone rosso (ovviamente l’airone è oggi specie protetta; anche in virtù di ciò la sua presenza risulta sempre più numerosa in tutti gli specchi lacustri residui del Lacus Velinus, Piediluco, Lungo, Ripasottile. ndr).

Abitatori dei canneti sono lu capponacciu (tarabusino), uccello dalle zampe molto lunghe e dotato di ottime capacità mimetiche, lu pizzardu (beccaccino) e la rustichélla (croccolone). Le zone acquitrinose sono preferite dai Caradridi fra i quali sono presenti la paoncèlla (pavoncella) e fa pizzardèlla (frullino). Uccello dalle caratteristiche abitudini di nidificazione è lu pinnulinu (pendolino) il quale costruisce con foglie, muschio ed erba un nido a forma di piccolo fiasco) che appende ai rami di salice.

Altre varietà presenti a Piediluco sono infine l’arcèa (piro-piro boschereccio), lu cardapésce (martin pescatore), lu cannarellóne (cannareccione) e lu maragnóne (cormorano).

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